Daniele De Rossi ci lascia. Anche questo momento è arrivato… inevitabile come l’addio di Francesco Totti, ma forse stavolta più inaspettato e per certi versi più doloroso. Francesco si è arreso al tempo, ha resistito più che ha potuto arrivando a fare la differenza anche dopo aver passato i 40, De Rossi probabilmente si è arreso al suo amore per la Roma, capendo che il suo fisico non gli avrebbe permesso di aiutarla come avrebbe voluto.
Totti e De Rossi, hanno accompagnato gli ultimi 20 anni di Roma, i momenti belli, qualche vittoria, tante delusioni… due personaggi enormemente diversi che però hanno rappresentato al meglio la romanità completandosi e creando un rapporto con la città difficilmente ripetibile.
Di Totti si è scritto tanto… i suoi numeri, i video dei suoi goal parlano da soli e resteranno in eterno. Tra 30 anni a un ragazzo che tifa Roma basterà far vedere qualcuno dei goal di Francesco per spiegargli la classe, il genio di questo grande campione. Ma come potremmo spiegare chi era Daniele?
De Rossi qui a Roma è stato quasi sempre il numero due…. “la Roma di Totti e… De Rossi”, si è sempre detto. Eppure quest’anno saluteremo un vero numero uno, il vero leader della Roma dell’ultimo ventennio ! Un calciatore di un carisma e personalità difficilmente eguagliabili, un grandissimo calciatore e un vero ROMANISTA.
Nella sua carriera De Rossi alla Roma è probabilmente molto in credito. Mentre Francesco Totti ha dato tantissimo ma anche ricevuto tantissimo (la gioia di uno scudetto, la fascia di capitano per un ventennio, l’amore eterno della città che lo ha fatto Re), De Rossi nonostante le sue incredibili capacità tecniche e tattiche da calciatore non ha mai vinto lo scudetto a Roma da protagonista, ha pagato il non giocare nella Roma più forte della sua storia ed ha pagato l’ombra di Totti.
Capitan Ceres, lo sfregio sotto la barba, sono 5 anni che non gioca… ma quante ne ha dovute passare Daniele? Ha pagato sempre lui per la Roma, e non gli abbiamo mai perdonato niente. Il rinnovo del 2012, quando De Rossi era uno dei primi 3 centrocampisti in Europa… un contratto che la vecchia dirigenza non poteva rinnovare e arrivato a scadenza. De Rossi che poteva andare gratis in qualsiasi squadra avesse voluto. Il Chelsea lo avrebbe coperto d’oro, invece De Rossi si è accordato con la Roma. La gente gli ha sempre fatto pesare quei 6 milioni a stagione, eppure lui avrebbe potuto prendere quasi il doppio se non fosse stato così innamorato dei colori giallorossi.
Il mio più grande rimpianto è di avere solo una carriera da poter donare alla Roma
Daniele De Rossi non è stato mai banale. Sempre lucido nelle interviste, sempre schietto e sempre molto intelligente. Probabilmente per questo tutti noi sappiamo che diventerà un grandissimo allenatore, come lo è il Papà con la primavera e anche molto di più. Qualcuno spinto dall’amore lo vorrebbe subito, ma no, Daniele non si deve bruciare… deve finire soddisfatto la sua carriera da calciatore, fare le sue esperienze e poi tornare qui ed allenare la nostra squadra. Lui non è Ancelotti, che dice da 20 anni che prima o poi allenerà la Roma, Daniele la Roma la allenerà sul serio e speriamo che il destino gli renda quelle vittorie che non ha potuto avere da calciatore.
616 Presenze, 18 stagioni con una sola maglia. Il secondo calciatore della nostra storia ci saluterà a Roma – Parma. Per molti sarà forse meno emozionante dell’addio di Francesco, ma non per chi l’ha vissuto per tutta la carriera. Probabilmente tanti non si ricordano quanto è stato forte De Rossi calciatore, e tanti non capiscono quanto sia importante l’uomo nello spogliatoio. De Rossi con la sola presenza riesce a trasmettere la vera essenza di essere Romanista, ti basta guardarlo in faccia per capire l’orgoglio che prova indossando i colori della sua Città, ma proprio per la carriera che ci ha donato dobbiamo con riconoscenza “concedergli” questa esperienza all’estero, felici che abbia scelto di farla oggi e non a 28 anni. La speranza è che tutti i tifosi mettano da parte a Roma – Parma tutta la delusione della stagione, gli attriti con la società, e gli regalino una festa come assolutamente merita.
In qualunque storia che si rispetti, il personaggio del Principe è solitamente quello che garantisce il lieto fine salvando e sposando la principessa. Nella storia della Roma però, il Principe Giuseppe Giannini probabilmente ha raccolto qualcosa in meno di quello che avrebbe meritato.
Giannini è stato un calciatore fantastico. Talento allo stato puro, intelligenza calcistica superiore e tanto tanto amore per la Roma. Purtroppo per lui, non è stato fortunato perché la sua carriera calcistica si colloca tra la grande Roma di Viola del secondo scudetto e quella di Sensi del terzo, che ha sfiorato ma delle quali non ha potuto far parte per motivi anagrafici. La Roma di quegli anni raramente è stata competitiva per i primi posti nonostante la presenza di qualche campione come appunto Giannini, Voeller e Aldair, ma con una qualità complessiva non all’altezza.
Nonostante tutto il Principe, è riuscito a vincere con la Roma qualche Coppa Italia e può definirsi Campione d’Italia 1982-83 anche se in quella stagione non venne mai schierato in campionato.
L’esordio del Principe Giannini
Giannini nasce il 20 Agosto 1964 nel quartiere Triste, e si trasferisce a 3 anni a Frattocchie. Qui inizia a muovere i primi passi da calciatore nel Santa Maria delle Mole. Il suo talento è evidente, ed approda giovanissimo nell’Almas Roma su segnalazione di Luciano Tessari (vice-allenatore di Nils Liedholm).
Giannini, ad appena 14 anni, era considerato il miglior talento Italiano in prospettiva, e sono tante le squadre che si interessano a lui, in particolare il Milan (con il quale sostiene anche un provino) e la Lazio. La Roma fu brava ad approfittare di un rallentamento della trattativa col Milan e dell’addio di Moggi alla Lazio. Il responsabile del settore giovanile Giorgio Perinetti convinse il presidente Viola ad offrire ben 40 Milioni di lire per accaparrarsi il giovanissimo calciatore.
L’esordio in serie A con Liedholm
Era la stagione 1981/82, quella successiva allo scudetto perso per il gol annullato a Turone, ed Il Barone Liedholm stava costruendo la fantastica squadra che poi avrebbe vinto lo scudetto l’anno successivo. Il gioco di Liedholm si basava molto sulle qualità tecniche, ed il tecnico fu colpito dall’eleganza dei movimenti del giovane Giannini, al punto di inserirlo in campo in una partita con tanti assenti nella prima squadra. Era il minuto 56 di un Roma Cesena giocata il 31 gennaio 1982, e Giannini collezionò la prima delle sue 437 presenze in maglia giallorossa.
Purtroppo non fu un esordio fortunato, e per un malinteso a centrocampo proprio tra Giannini e Falcao la Roma perse la partita. Le critiche per quella partita furono piuttosto pesanti, e per preservare il giovane calciatore venne deciso di rimandarlo in Primavera per continuare il percorso di crescita. Giannini con la Primavera vinse il Torneo di Viareggio ed il Campionato, ma potè partecipare soltanto di riflesso ai successi della prima squadra.
Eriksson e la consacrazione
Finita l’era Liedholm la Roma deve rinnovarsi. Non c’é più Di Bartolomei e tanti giocatori chiave come Falcao sono ai margini. Il talento del Principe trova sempre più spazio e nonostante una stagione deludente Giannini gioca e convince diventando titolare della sua squadra del cuore.
La stagione successiva è quella della grandissima delusione per la rimonta sulla Juve vanificata dalla sconfitta interna col Lecce, una delle pagine più amare della storia romanista, ma resta comunque la vittoria della Coppa Italia in finale contro la Sampdoria e l’esordio in Nazionale.
Il ritorno del Barone e i tanti gol con la Roma
Sulla panchina giallorossa torna Nils Liedholm che ritrova un Giannini già affermato, e ne esalta le qualità realizzative. La Roma arriva terza e Giannini con 11 gol nella classifica marcatori è dietro solamente a Careca e Maradona. L’anno successivo è invece molto deludente. Parliamo della stagione di Andrade e Renato, dell’esonero e il richiamo di Liedholm, dello spareggio perso contro la Fiorentina con gol di Pruzzo.
La Roma del Flaminio
Nella stagione che precede i mondiali del 1990 la Roma deve rinunciare allo Stadio Olimpico sottoposto a lavori di ristrutturazione, e gioca tutta la stagione allo Stadio Flaminio, guidata dal tecnico Gigi Radice in una stagione dichiaratamente di transizione. Tuttavia il sesto posto ottenuto da una squadra di combattenti ha generato un’empatia speciale con i tifosi, al punto che quella stagione è ancora oggi ricordata con piacere nonostante un piazzamento non proprio rilevante.
I mondiali dell’Italia non furono fortunati, dopo un percorso netto viene eliminata in semifinale dall’Argentina ed è grande delusione, ma Giannini gioca un mondiale fantastico risultando uno dei migliori calciatori del torneo.
Ottavio Bianchi e la morte di Dino Viola
Dopo i mondiali la stagione inizia con grandi aspettative. Arriva in panchina Ottavio Bianchi che riesce a tenere unita la squadra e a farle disputare due finali. Sconfitta in coppa Uefa contro l’Inter e vittoria della coppa Italia contro la Samp. Ma c’é poco da festeggiare. Durante la stagione il 19 gennaio 1991 ci lascia il grande Presidente Dino Viola.
La seconda stagione con Bianchi è molto difficile per il Principe. In aperto contrasto con l’allenatore, al punto da definirlo “sleale” e di vedersi tolta la fascia di capitano.
La Roma di Ciarrapico e Boskov
Il nuovo presidente Ciarrapico sceglie per la panchina Vujadin Boskov, tecnico navigato e vincente con la Sampdoria. Peppe fa una buona stagione, ma i risultati della squadra sono estremamente deludenti con la Roma che arriva decima. Arriva anche una finale di Coppa Italia col Torino. Il 5-2 del ritorno con tripletta di Giannini non bastano a recuperare la gara di andata persa malamente per 3-0
Il difficile rapporto con Sensi e il rigore nel derby
Diventa presidente della Roma il compianto Franco Sensi. La stagione 1993-94 inizia con Carletto Mazzone in panchina. Mazzone apprezza Giannini calciatore e l’uomo, i due si prendono molto ma ancora una volta sul campo tante delusioni ed un settimo posto in classifica. L’episodio chiave che determina la fine della carriera di Giuseppe Giannini con la Roma è datato 6 marzo 1994. Si gioca il Derby e la Roma è sotto 1-0. Francesco Totti si procura un calcio di rigore nei minuti di recupero, il Principe si prende la responsabilità di calciarlo ma Marchegiani para, e la Roma perde la partita.
I tifosi giallorossi perdonano il principe dedicandogli anche uno splendido striscione nella partita successiva:
Il tuo coraggio di tirarlo, il tuo dolore di sbagliarlo, il nostro amore per dimenticarlo
Striscione curva sud
Vulcanico presidente sensi invece, a caldo nel dopo partita, si lascia sfuggire delle frasi che ferirono profondamente nell’orgoglio il principe:
Se uno ha un rigore e lo sbaglia, non è degno di stare in questa squadra
Franco Sensi
Da quel maledetto rigore il rapporto con la Roma non è mai più stato lo stesso. Giannini gioca meno e la stagione 1995-96 sarà l’ultima in maglia giallorossa. Ancora una volta il destino non regala al principe le soddisfazioni che avrebbe meritato. Forse la più bella partita di Giannini con la maglia della Roma coincide con una delle più cocenti delusioni della sua carriera. Si giocano i quarti di finale di Coppa UEFA all’Olimpico, con la Roma che deve ribaltare un pesante 2-0 rimediato all’andata. Giannini gioca una partita splendida, realizzando anche il gol che porta la Roma ai supplementari dove Moriero su assist di Totti fa 3-0. L’accesso alla semifinale sembra fatta, ma nemmeno il tempo di festeggiare e lo Sparta Praga segna il goal qualificazione. È una delusione enorme per Giannini che a fine partita annuncia il suo addio alla Roma. La sorte non gli è amica nemmeno nella penultima giornata del torneo quando dopo una superba prestazione a Firenze rimedia una ammonizione che gli impedirà di salutare la sua gente all’Olimpico contro l’Inter nell’ultima di campionato. La curva sud gli rende comunque omaggio con uno striscione di addio:
Dopo la Roma
Giannini lascia la sua Roma e lo fa per lo Sturm Graz, squadra austriaca con la quale vince due coppe nazionali. Decide di tornare in Italia e di seguire Carlo Mazzone al Napoli. I risultati però non sono quelli sperati, e quando Mazzone viene esonerato anche Giannini lascia la squadra che a fine stagione retrocederà in serie B.
Il principe chiude la sua carriera con la maglia giallorossa, ma non quella della Roma. Viene messo sotto contratto da Lecce con il quale in serie B riesce ad ottenere la promozione.
La partita di addio ed il grande dispiacere
Terminata la sua carriera da calciatore, Giannini sente il desiderio di salutare finalmente il pubblico romanista. Viene organizzata così la sua partita di addio, tra vecchie gloria della Roma e giocatori della nazionale d’Italia 90. In campo tra gli altri Tancredi, Prohaska, Voeller, Righetti, Maldera e Bruno Conti in maglia giallorossa e Franco Baresi, Bergomi, Schillaci e Vierchowod con quella della Nazionale. Nonostante l’assenza di rappresentanti della società l’atmosfera è molto tesa. La Lazio ha da poco vinto lo scudetto ed i tifosi pretendono un rapido cambio di rotta. La contestazione sfocia in violenza, i tifosi invadono e danneggiano il campo, i calciatori rientrano negli spogliatoi e la partita viene sospesa lasciando solo il ricordo delle lacrime del principe.
L’esperienza da allenatore e l’oblio
La carriera di allenatore di Giuseppe Giannini è stata piuttosto anonima. Comincia nella stagione 2004-2005 al Foggia, e viene esonerato a metà stagione. Esperienze altrettanto brevi e negative con la Sambenedettese, in Romania all’Agres, e con la Massese. Gallipoli invece è stata una parentesi positiva, e nel 2008-2009 ottiene una storica promozione in serie B. Nel 2010 siede sulla panchina del Verona ma viene esonerato dopo 5 giornate. Pochissime partite anche sulla panchina del Grosseto, e come selezionatore della nazionale libanese. Le sue ultime esperienze da allenatore sono col Racing Roma in serie D e successivamente al Fondi dal quale si dimette per divergenze con il proprietario.
Al di là di qualche sporadica intervista il Principe è sparito dal mondo del calcio, ed è quasi incredibile ripensando a quello che ha rappresentato per questo mondo da capitano della Roma e da giocatore fondamentale per la nazionale.
Agostino Di Bartolomei è stato il grande capitano della Roma del secondo scudetto. Per i tifosi della Roma era semplicemente “Ago” o “Diba”, ed il ricordo della sua storia è ancora oggi una ferita aperta, perché quella tragica morte avvenuta per suicidio il 30 Maggio 1994, esattamente dieci anni dopo la finale di Coppa dei Campioni persa contro il Liverpool poteva essere evitata.
Di Bartolomei aveva un carattere chiuso e riservato. In campo è stato un grande campione, nella vita un uomo di forti principi. Era un buono Diba, uno di quelli che aveva solo una parola, per il quale rispetto, riconoscenza, onestà erano dei valori imprescindibili. Purtroppo nonostante il suo grande carisma portato per tanti anni come capitano sul campo di calcio, non ha retto a quello che per lui è stato un tradimento da parte di quel mondo del calcio a cui aveva dato tutto e che dopo il ritiro gli ha chiuso tutte le porte in faccia.
Ha aspettato per dieci anni una chiamata dalla sua Roma. Tante idee, tanti progetti sulla scrivania ma quella telefonata non è mai arrivata. Per uno che aveva dedicato la sua vita alla Roma, scendendo in campo in maglia giallorossa 308 volte (146 con la fascia di capitano) segnando 66 goal non era facile da accettare.
Chi era Agostino Di Bartolomei
Agostino era romano e romanista. Ha iniziato a tirare calci ad un pallone nel suo quartiere e successivamente in una società satellite della Roma. Fu notato dal Milan appena tredicenne ma scelse di provare ad entrare nel mondo del calcio professionistico a Roma, e ci riuscì velocemente.
Approdò nelle giovanili giallorosse. Vinse un paio di campionati e ad appena diciotto anni ebbe la grande soddisfazione di esordire in serie A con la sua Roma. Il ragazzino ci sapeva fare, nelle due stagioni che seguono il minutaggio in squadra crebbe, e la Roma per completarne la maturazione lo mandò un anno a giocare titolare in serie B con il Lanerossi Vicenza.
Di Bartolomei tornò alla Roma nella stagione successiva, pronto per diventare un titolare inamovibile della squadra. Centrocampista completo, non velocissimo ma dotato di grande senso della posizione, di intelligenza calcistica, visione di gioco e di quel calcio potente e preciso che nel tempo è diventato un vero e proprio marchio di fabbrica. “Tira la bomba Ago”, urlavano i tifosi. Nel quartiere Tufello di Roma ancora oggi è presente una scritta in ricordo del capitano.
La sua carriera con la Roma
Con la Roma vinse tre Coppe Italia e soprattutto lo splendido scudetto della stagione 82-83 quando venne arretrato dal Barone Liedholm in difesa. Accanto al velocissimo Vierchowod e potè sfruttare tutta la sua sapienza calcistica diventando un fantastico regista difensivo, riuscendo a sfruttare il suo tempismo e senso della posizione in fase difensiva, ed i suoi precisissimi lanci e le conclusioni nei frequenti inserimenti in zona avanzata.
Nonostante le grandi prestazioni con la maglia giallorossa, non fu mai protagonista in maglia azzurra in anni in cui se non si vestivano maglie a strisce era davvero complicato imporsi in nazionale.
Dopo la dolorosa sconfitta in Coppa dei Campioni la Roma cambiò allenatore, e sulla panchina giallorossa arrivò Sven Goran Eriksson, cultore di un gioco veloce e atletico. Per caratteristiche Ago non era adatto a quel tipo di gioco, inoltre la finale con il Liverpool con i rigori aveva lacerato il rapporto con alcuni compagni ed il Presidente Viola decise di cederlo al Milan.
Roma era con lui, nell’ultima partita in maglia romanista, un Roma – Verona finale di Coppa Italia giocata il 26 Giugno 1984 lo salutano con un bellissimo striscione. Pochi mesi dopo si gioca un Milan – Roma, e Diba, in maglia rossonera segna, ed esulta in modo rabbioso, scaricando tutta la frustrazione e la rabbia accumulata per una cessione che aveva vissuto come un tradimento. Molti tifosi non hanno gradito, ed i rapporti con il tifo romanista per qualche tempo si è raffreddato.
Ago per sempre nei nostri cuori
L’amore vero però non sparisce mai, ed ancora oggi il nome di Agostino Di Bartolomei è uno dei più amati tra il pubblico romanista. La As Roma lo ha inserito nei primi 11 giocatori della Hall of Fame ed i tifosi nei 16 giocatori più rappresentativi scelti per la coreografia del derby 2015. Ma quei dieci anni di silenzio che hanno lasciato solo Agostino restano e pesano come macigni sulle coscienze di chi non ha saputo capire l’uomo e dargli l’opportunità di mettere il suo grande amore per i colori giallorossi e la sua conoscenza del calcio al servizio della Roma. Chissà cosa sarebbe potuta essere la Roma con un uomo come Di Bartolomei in società. Un grande rimpianto per una storia finita come non doveva finire.
esistono i tifosi di calcio…e poi ci sono i tifosi della Roma
Bruno Conti nasce a Nettuno il 13 Marzo 1955 e ad eccezione di due stagioni giocate con il Genoa in serie B la sua carriera prima da calciatore e poi da dirigente è sempre stata legata alla Roma dal 1973 ad oggi.
Di Bruno ce n’è uno e viene da Nettuno cantavano i tifosi della Roma in contrapposizione al Bruno (Giordano) che militava nell’altra squadra della capitale. Bruno Conti, o Brunetto era uno dei simboli di quella squadra fortissima che vinse lo scudetto nella stagione 1982-83 e arrivò in finale di Coppa dei Campioni nell’anno successivo.
169 Cm di talento erano pochi
Può sembrare incredibile ma Bruno Conti, campione d’Italia con la Roma, campione del Mondo con la Nazionale del 1982, eletto miglior calciatore dei mondiali, soprannominato Marazico per le sue caratteristiche… è stato più volte scartato nei provìni sostenuti nelle società professionistiche.
Anche la Roma inizialmente non fu convinta di quel ragazzino fisicamente non strutturato, ed il “Mago” Herrera decise di non tesserarlo. A porre rimedio alla colossale svista furono Tonino Trebiciani che lo volle fortemente alla Roma e successivamente Liedholm che a dispetto dei 169cm di altezza seppe valorizzare la tecnica brasiliana di Conti rendendolo uno dei più grandi calciatori italiani di sempre.
Bruno Conti, una vita con la Roma
La generosità in campo, la rapidità negli scatti, le sue irresistibili serpentine lo fecero diventare in breve tempo un beniamino dei tifosi.
Nei 16 campionati disputati in maglia giallorossa ha collezionato 402 presenze e 47 reti. La sua ultima stagione da calciatore della Roma fu quella del 1990-91 durante la quale è sceso in campo solo una volta. Da allora e fino ad oggi accompagna la Roma ricoprendo tanti ruoli. Allenatore, ambasciatore dei colori giallorossi nel mondo. Il suo incarico più proficuo è stato quello di responsabile del settore giovanile dove il suo fiuto per il talento ha permesso di scoprire una serie infinita di ragazzi diventati negli anni calciatori professionisti.
È stato uno dei primi 11 calciatori ad entrare nella Hall of Fame ufficiale giallorossa il 20 Settembre 2012. Non poteva mancare la sua faccia nella coreografia del derby 2015 che omaggiava i giocatori simbolo della storia della As Roma.
Da Bruno Conti a Bruno Conti Junior
Bruno Conti è il capostipite di una dinastia di calciatori professionisti. Probabilmente il suo nome ha pesato sulle carriere dei figli che non hanno fatto le fortune della Roma. Sia Andrea che Daniele hanno esordito in serie A con la maglia giallorossa. Andrea ha avuto una carriera meno fortunata, mentre Daniele è diventato il giocatore più importante della storia del Cagliari, dove sta muovendo i suoi passi anche il figlio Bruno Conti Junior che sembra pronto a continuare la storia dei Conti in serie A.
Franesco Rocca è stato un grande giocatore, ma nel suo ruolo sarebbe potuto diventare uno dei migliori in assoluto di tutti i tempi. Atleta velocissimo e potente, era un giocatore moderno ed inarrestabile. La sua carriera che poteva essere devastante, si è arrestata praticamente sul nascere con un brutto infortunio a soli 22 anni che dopo cinque anni di calvario lo portano ad un prematuro ritiro a soli 27 anni.
Nato a San Vito Romano, Francesco Rocca era un grande tifoso della Roma. La possibilità di diventare un calciatore della sua squadra del cuore gli venne data da Helenio Herrera che lo volle a tutti i costi, e lo fece debuttare giovanissimo nel 1972 nel Torneo Anglo Italiano.
Le qualità di Kawasaki non passavano certo inosservate. Le sue galoppate sulla fascia sinistra, quella capacità di offendere e difendere con la stessa qualità furono notate anche da Fulvio Bernardini allora CT della nazionale. Rocca aveva anche un’altra qualità fondamentale per un calciatore: la testa. Conosceva i suoi difetti e sapeva migliorarsi con il lavoro e così in poco tempo affinò anche la sua tecnica diventando così un giocatore straordinariamente completo per la sua età.
Nei tre anni successivi al suo esordio Francesco Rocca diventò un beniamino dei tifosi della Roma, e sarebbe diventato certamente uno dei protagonisti del fantastico ciclo di Viola e Liedholm, ma la sorte non era d’accordo.
L’infortunio e il lungo calvario
Durante un Roma – Cesena giocato il 10 Ottobre 1976 Rocca prende una brutta botta nel primo tempo, resta in campo giocando comunque una buona gara, ma il ginocchio fa male. Pochi giorni dopo gioca in nazionale, contro il Lussemburgo, la sua ultima partita in maglia azzurra. Tre giorni dopo, durante un blando allenamento al campo Tre Fontane il ginocchio di Kawasaki va in pezzi. Si accascia a terra in preda a un dolore lancinante e la diagnosi è tremenda: rottura di menisco e legamenti.
Probabilmente oggi questo tipo di infortunio non avrebbe compromesso la sua carriera, ma le conoscenze mediche, gli strumenti chirurgici e la cattiva gestione del recupero non gli consentirono mai più di essere lo stesso.
Francesco Rocca si sottopone negli anni a cinque interventi, torna in campo per brevi periodi ma non ha mai più la possibilità di dare continuità alle sue prestazioni e così, ormai consumato nel morale, decide di abbandonare il calcio il 3 Agosto 1981 a soli 27 anni ed appena 141 presenze in campionato, tutte in maglia giallorossa.
Il suo carattere testaccino caparbio e tenace, e la sua sfortunata carriera lo consegnano alla storia. Entra per primo nella hall of fame della Roma e viene inserito tra i giocatori simbolo della squadra giallorossa nella coreografia del Derby del 2015 che omaggiava i giocatori più rappresentativi.
Finito col calcio giocato diventa tecnico della federazione ed allena tutte le giovanili dell’Italia, comparsa la nazionale olimpica nella sfortunata edizione di Seul del 1988.
Giuliano Taccola è una ferita che per i tifosi della Roma sanguina da oltre 50 anni. Attaccante giovane e di grandi prospettive venne acquistato per novanta milioni dal Genoa nella stagione 1967-68.
Taccola era velocissimo, la sua corsa era paragonabile a quella dei centometristi dell’epoca (correva i canto metri in 11 secondi), ed aveva un innato fiuto del goal. Avrebbe potuto fare la storia della Roma sul campo, invece il suo nome è legato ad una delle pagine più dolorose della squadra giallorossa.
Dopo una buona prima stagione chiusa con dieci reti che negli anni sessanta erano un ottimo bottino, Taccola era uno dei giocatori più amati dai tifosi. Le sue prestazioni convincenti, il suo carattere educato e la sua professionalità erano molto apprezzate e sul suo futuro tutti gli addetti ai lavori erano pronti a scommettere.
La seconda stagione romanista iniziò con numeri ancora migliori, sette reti nelle prime dodici partite, ma qui purtroppo si concluse la sua carriera ed iniziò un mistero che ancora oggi non è stato completamente risolto.
Il mistero della sua morte
Nell’inverno del 1969 le condizioni fisiche di Taccola peggiorano repentinamente. Comincia ad accusare stanchezza e febbre intermittente. I medici giallorossi diagnosticano un vizio cardiaco e tonsillite. Lo curano con antibiotici e suggeriscono riposo, ma l’allora allenatore Herrera ha bisogno di lui e preme per riaverlo in campo.
Viene sottoposto a una tonsillectomia ad inizio Febbraio. L’operazione comportò numerose emorragie, ma la febbre continuava ad andare e venire e le pressioni del mister per riaverlo in campo ad aumentare.
Nonostante alcuni svenimenti accusati nei giorni precedenti venne convocato per la sfida contro il Cagliari, l’11 Marzo 1969. Il giorno della gara Giuliano accusò febbre e debolezza, e non riuscì a partecipare all’incontro che scelse di seguire dalla tribuna. Nell’intervallo della partita la tragedia: Taccola accuso un malore, svenne ed andò in arresto cardiaco. A nulla servirono i tentativi di rianimazione da parte dei medici e così il ragazzo perse la vita a soli 25 anni.
Ancora oggi le cause della tragedia non sono chiarite. Nemmeno l’autopsia e le successive indagini hanno potuto stabilire quanto la morte di questo ragazzo sia arrivata per una inevitabile malattia, e quanto per incuria e incompetenza di chi gestiva la sua attività di atleta professionista.
Molti calciatori della Roma accusarono il mago Herrera per aver affrettato troppo il suo rientro sul campo, ed altre voci anche peggiori di doping ed esperimenti farmacologici si sono succedute nel tempo.
Riconoscimenti
Per i tifosi della Roma resta il ricordo della triste storia di questo ragazzo velocissimo che infiammava i cuori con le sue giocate, e a distanza di anni nessuno si è dimenticato di lui.
Presente nei sedici idoli scelti per la coreografia del derby 2015 dedicata alle bandiere giallorosse, ed inserito nel 2018 nella Hall Of Fame della Roma, il nome di Giuliano Taccola e la sua triste storia sono arrivati fino ai giorni d’oggi.
Giancarlo De Sisti ha diviso il suo cuore calcistico tra Roma e Firenze. Romano di nascita. Romano del Quadraro, classe 1943, Picchio De Sisti aveva nella tecnica il suo principale pregio. La utilizzava nel suo ruolo di centrocampista abbinando calma ed intelligenza calcistica. Piccolo di statura ma agile nei movimenti e dotato di buona corsa, privilegiava un gioco semplice e passaggi corti, ma la sua visione di gioco lo portava a vedere e capire il momento giusto per passaggi smarcanti ai suoi compagni di squadra.
I primi passi con la Roma
La sua carriera da calciatore inizia nelle giovanili della Roma nel 1959 e in due stagioni vince due volte il Campionato Ragazzi ed esordisce a soli 17 anni in serie A. Dall’anno successivo entra definitivamente in prima squadra, aumentando di stagione in stagione il numero di presenze fino a diventare titolare. Con la Roma il suo primo trofeo, la Coppa Italia conquistata nella stagione 1963-64.
9 anni con la Fiorentina
Giancarlo De Sisti è giovane, forte, ed apprezzatissimo dagli addetti ai lavori. Si mette in mostra nei sui anni in giallorosso ed i tifosi lo adorano, ma purtroppo la società non se la passa bene è così nell’estate del 1965 accetta per il suo cartellino 165 milioni di Lire più il cartellino di Benaglia.
Con la Fiorentina si consacra ai massimi livelli. Conquista la Nazionale con la quale diventa campione d’Europa e gioca la finale di coppa del mondo contro il Brasile di Pelè, mentre con la viola vince il campionato nella stagione 1968-69 e la Coppa Italia 1965-66.
Il ritorno a Roma
Nel 1974 siede sulla panchina della Roma Nils Liedholm. Il Barone chiede come rinforzo per il centrocampo il trentunenne De Sisti. L’affare si fa e Picchio torna a Roma dove per cinque stagioni sarà il faro del centrocampo giallorosso.
la carriera da allenatore e dirigente
Subito dopo il ritiro dal calcio giocato De Sisti ricopre il ruolo di direttore tecnico nella sua Roma nella stagione 1979, iniziando a frequentare contemporaneamente il corso per il patentino da allenatore.
Nel 1981 subentra a Carosi alla guida della Fiorentina che porta dalla zona retrocessione al quinto posto. L’anno successivo sfiora lo scudetto. Nella terza stagione lascia l’incarico dopo un problema di salute e solo nel gennaio del 1986 subentra nella panchina dell’udinese dove resterà due stagioni.
Ancora una esperienza da allenatore con la Nazionale Militare nel 1991, per poi chiudere la sua carriera da allenatore con una deludente stagione all’Ascoli conclusa anzitempo con un esonero.
Chiude la sua carriera nella Lazio di Cragnotti nella quale ricopre il ruolo di responsabile del settore giovanile dal 2002 al 2004.
Riconoscimenti
Nel 2015 i tifosi giallorossi inseriscono la sua immagine tra i 16 capitani e bandiere nella coreografia del derby, mentre nel 2016 viene inserito nella Hall of Fame della Roma.
Giacomo Losi, per i tifosi giallorossi soprannominato “core de Roma” è il terzo calciatore di tutti i tempi con più presenze della nostra storia dopo Francesco Totti e Daniele De Rossi.
Non era romano di nascita Giacomo Losi, ma di Soncino, un paesino della provincia di Cremona. Classe 1935, di professione difensore eclettico che grazie alla sua intelligenza tattica sapeva destreggiarsi in tutti i ruoli difensivi a dispetto dei suoi 168 cm di altezza, non esattamente il fisico ideale per un difensore.
Calcisticamente nasce nella Cremonese, ma calca i campi di serie A per la prima volta e per tutta la carriera con la maglia della As Roma diventandone presto un’icona. Talmente grande il feeling con i tifosi della Roma che in occasione di un Roma – Sampdoria in cui da infortunato resta in campo per far numero (le sostituzioni non esistevano) e segna il goal del 3 a 2 per la Roma saltando praticamente con una sola gamba guadagnandosi un posto nella leggenda ed il soprannome di “core de Roma”. Anni dopo l’immenso onore riservato dalla curva sud che nella stupenda coreografia nel derby dell’11 Gennaio 2015 espone fiera la sua effige insieme ad altri 15 grandi capitani e figli di Roma.
Le 471 presenze in maglia giallorossa maturate in quindici stagioni, nelle quali ha vinto due Coppe Italia (1963-64 e 1968-69) e una Coppa delle Fiere (1960-61) gli garantiscono un posto nella Hall of Fame giallorossa.
Fuori dal campo Losi era un ragazzo timido e riservato, ma in campo e nella vita era un leone. Poco più che ragazzino aiuta i partigiani nella seconda guerra mondiale portando le munizioni distinguendosi per il grande coraggio.
Consegnata tutta la sua carriera alla causa romanista Losi ha intrapreso con successo la carriera da allenatore tra serie B e serie D ed ancora oggi collabora con una scuola calcio collegata alla Roma.
Amedeo Amedei (Frascati, 26 luglio 1921 – Grottaferrata, 24 novembre 2013) è stato uno dei più grandi giocatori della storia giallorossa. Centravanti del primo scudetto ha segnato con la maglia della Roma 115 reti. E’ tutt’oggi il calciatore più giovane ad aver segnato in serie A e della massima serie è il 13mo miglior marcatore di sempre con 174 goal.
Soprannominato “il Fornaretto” per le sue origini, ha vestito la maglia della Roma per 224 volte fino al 1948, per continuare poi la sua attività da calciatore con Atalanta Inter e Napoli.
Nonostante le esperienze con le altre squadre il suo legame con la Roma non tramontò mai.
<<Quando passai all’Inter e poi al Napoli, misi subito le cose in chiaro: il giorno che incontreremo la Roma io non giocherò, dovesse pur essere una partita decisiva per lo scudetto. Non potete pretendere che io pugnali mia madre>>
Amedei era un giocatore ambidestro, molto tecnico ed estremamente veloce. Una delle sue specialità erano i calci di punizione a spiovente calciati sopra la barriera, è stato uno dei migliori giocatori italiani di tutti i tempi.
Giorgio Campi è uno dei calciatori più amati della storia romanista. Innamorato della Roma al punto che rinunciò allo stipendio pur di continuare a difenderne i colori.